"Vite. Vite umane e vegetali, di contro a queste soglie, passaggi, tra spazi ma anche tra tempi e stagioni."
(Rodolfo Balzarotti)
Bambini seduti sui gradini di una soglia che, forse in una pausa dei loro giochi, fanno merenda nella luce diurna. Alle loro spalle, una porta, le cui vecchie ante in legno spalancate ci introducono in un interno di un nero profondo. Ad esso i tre - o quattro - bambini volgono le spalle. Immersi nella luce, esaltata dalle loro ombre portate, non sembrano accorgersi di quest’oscurità che incombe e che tuttavia non ha nulla di minaccioso. Sembra piuttosto un ricettacolo pronto a riaccoglierli in quest’ombra protettivo da cui essi han fatto la loro sortita nell’aperto del giorno, della luce, della vita. Così stanno: sulla soglia, senza inquietudini, naturalmente, affidati, mobili e vivi.
E poi, imprevedibilmente, la soglia sembra svanire, come assorbita in un aperto senza limiti, un infinito azzurro che parimenti non li turba, non diversamente dai tre limoni posati su un muretto che si affaccia sull’azzurro svanente di una superficie marina. Altra soglia, tra due aperti, terra e mare questa volta.
Il punto di vista ora si rovescia: due finestre aperte sull’esterno, e due stagioni, estate e autunno-inverno.
La prima soglia è una finestra che si affaccia, con la sua bianca cornice, su un esterno di azzurro e verde luminosissimo. Piuttosto, parrebbe esser l’esterno ad affacciarsi, anzi a invadere e a penetrare questo interno in cui noi ci troviamo – del resto appena visibile, visto che il vano della finestra occupa la quasi totalità della tela, in una massima prossimità all’osservatore. Che quindi anch’egli si sente quasi investito, invaso da questa luce esterna e dal ramo di olivo che si insinua, delicato ma perentorio, quasi fosse esso stesso a spalancare la finestra, la cui cornice, del resto, tende a svanire nell’azzurro del cielo. “Il cielo in una stanza”, come diceva una popolare canzone.
Poi, di contro, in posizione analoga, ma lasciando maggior spazio al vano piuttosto scuro della stanza, una finestra di grigio colore si apre – a meno che non sia in procinto di chiudersi - mentre sul davanzale posa malinconicamente una foglia secca, di contro alla luce abbacinante dell’esterno, che lascia intravedere tetti sbiancati di neve e di bruma invernale. Il matrimonio di interno ed esterno, qui, si direbbe vicino a un congedo.
Ancora una finestra, solenne e liturgica, con le sue ante aperte e i vetri chiusi che lasciano solo vedere, nel biancastro chiarore dell’esterno, la sagoma di un’esile, spoglia, vite. Ma, inverosimilmente, l’interno è di nuovo invaso da una gonfia onda di grandi foglie della medesima pianta, d’un verde intenso, che paiono tracimare dal dipinto. Qui sembra che, dall’esterno all’interno, non si passi dall’uno all’altro spazio, ma da una stagione all’altra.
E poi una porta serrata e una finestra appena socchiusa, entrambe viste dall’esterno. Ma la finestra è vista attraverso una gabbia di rami d’albero con foglie autunnali, a creare un ulteriore sbarramento; la porta, invece, è quasi carezzata da un gigantesca rosa in primissimo piano, che forse sporge solitaria da un cespuglio. E poi ancora un finestra chiusa con sbarre, che ancora una volta un fiorito rampicante tenta l’impossibile impresa di forzare. Forse la fine e l’inizio dello stesso ciclo: apertura e chiusura.
Vite. Vite umane e vegetali, di contro a queste soglie, passaggi, tra spazi ma anche tra tempi e stagioni.
Infine, la scena si sposta tutta in un interno, dove la soglia di una porta scandisce spazi diversi, ma una luce intensa scorre ovunque e sembra quasi emanare dalla esplosione in primo piano di un vaso di ginestre e margherite. Come il grande grigio e anonimo androne con scala, riscattato dall’analogo vaso di fiori e foglie di cui non sappiamo, nuovamente, dove esattamente poggi. Forse sul limite, sulla soglia stessa del dipinto, tra lo spazio chiuso di quest’ultimo e lo spazio aperto in cui noi ci troviamo.
Un ombroso sottopassaggio, uno di quelli che in Liguria si chiamano vòlti. I toni grigi dominanti ce ne rendono la frescura, mentre sul fondo un muro in luce, di tono più caldo, lascia intravedere, dietro, una vegetazione e una striscia di cielo azzurro. Nere soglie, sulla destra, non sono più che fessure. Il passaggio sembra dividersi nel primo piano. Nel mezzo dell’androne, appena prima del bivio, ecco la sagoma in controluce di un fanciullo che tiene in mano il pallone, quasi come un amuleto. Spicca anche per la sua tonalità scura ma di color rossastro caldo, con accennata un’aureola di luce, la stessa luce da cui egli proviene e che gli si è come depositata addosso. Sembra capitato qui per caso, seguendo i capricciosi rimbalzi del pallone stesso. Fasci di luce, in contrasto con le nere feritoie delle porta, sembrano indicare possibili uscite nell’aperto. Lui sembra perplesso, come indeciso se tornare nel caldo chiarore da cui è venuto o inoltrarsi nello scuro passaggio verso nuove luci. La sua presenza quasi enigmatica è accentuata dal globo che tiene in mano, o a cui si aggrappa. Un simbolo anche regale: fanciullo che tiene in mano il mondo; o fanciullo che accoglie il Regno di Dio…
L’universo quotidiano di Maria Teresa, anche quando si tratta di vedute, ha la tensione metafisica che è propria della natura morta. Che morta non è affatto. Meglio l’inglese Still Life, vita immobile, o silente - o meglio sospesa. Sulla soglia appunto.
Rodolfo Balzarotti